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Iran: la chiave del puzzle mediorientale

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L’atteggiamento sprezzante del presidente Mahmoud Ahmadinejad alla conferenza per la revisione del trattato di non proliferazione delle armi atomiche acuisce ancora di più i rapporti tra gli Stati Uniti e la Repubblica Islamica dell’Iran. Rivendicando il proprio diritto a sviluppare tecnologie nucleari, Ahmadinejad ha inteso ribadire la sua totale indisponibilità a rinegoziare i termini del dossier nucleare. In modo particolare, se negoziare vuol dire accettare i diktat occidentali, l’Iran non concederà alcuno spiraglio ad una risoluzione il più possibile pacifica. Anzi, i toni apocalittici del discorso pronunciato al Palazzo di Vetro lo scorso 3 maggio dall’unico capo di governo presente (tutti gli altri stati erano presenti a livello ministeriale) fanno presagire momenti di crescente tensione nei rapporti tra l’Iran e gli atlantici.

La questione nucleare è uno dei temi preminenti dell’agenda internazionale e dimostra quanto siano interrelate nella Repubblica Islamica dell’Iran la politica interna e quella estera. Storicamente, l’approccio internazionale dell’Iran ha subito notevoli condizionamenti dalle dinamiche interne. Il caso più eclatante è sicuramente quello della Rivoluzione Islamica del 1979. Il rifiuto che le nuove élite religiose avevano delle norme internazionali ha generato un momento di iniziale isolazionismo che però è stato subito riconsiderato in virtù di un ruolo geopolitico importante all’interno del Vicino Oriente. La volontà di esportare la rivoluzione islamica e necessità di sicurezza nazionale hanno eliminato la cappa isolazionista in cui l’Iran di Khomeini si era rinchiuso. Inoltre, considerazioni di carattere economico sono state determinanti nel riallineamento dell’Iran al sistema internazionale. Mantenere i livelli di scambio commerciale precedenti la rivoluzione ed aumentare l’attrattiva per gli investimenti esteri diretti sono stati gli obiettivi principali di un nuovo modo di pensare la politica internazionale post-rivoluzionaria, alla base della quale c’era la consapevolezza delle potenzialità iraniane ed il ruolo di elemento catalizzatore delle anime sciite. Il combinarsi di tutti questi elementi ha prodotto l’abbandono di un approccio conflittuale ai temi internazionali da parte dell’Iran post-rivoluzionario in favore di un approccio più accomodante, almeno a livello regionale. Di conseguenza, nell’analisi della politica estera iraniana, è possibile distinguere due elementi caratterizzanti. Il primo approccio è quello più conflittuale tipico del primo periodo rivoluzionario, riproposto dall’attuale presidente Mahmoud Ahmadinejad; il secondo più conciliante ed accomodante dettato nel tempo da varie esigenze in particolare di carattere strategico.

La seconda tipologia di approccio ha avuto sempre una larga applicazione nei riguardi dei paesi del Vicino Oriente e del Nord Caucaso. Valutazioni strategiche hanno altresì permesso all’Iran di sviluppare stretti legami con la Russia e con la Cina. Al contrario, il rapporto con gli Stati Uniti è sempre stato molto altalenante, anche se mai pienamente disteso. Le relazioni tra Teheran e Washington sono un’eccezione al modello di relazioni conciliante. Il disegno regionale dell’Iran è continuare sulla strada dei rapporti di buon vicinato, mantenendo sempre la bussola del proprio interesse geo-strategico. Tale posizionamento ha riscosso un particolare successo nelle élite, per cui è sempre stato proposto e perseguito. Tuttavia, i recenti sommovimenti interni di contrasto all’attuale governo e la pressione di parte della comunità internazionale sulla questione nucleare stanno portando l’Iran a riformulare in maniera più flessibile la sua azione internazionale, perseguendo l’obiettivo di accrescere il proprio soft power. E’ fuor di dubbio che Teheran abbia il necessario potenziale per divenire lo stato di riferimento del Vicino Oriente, cioè un elemento in grado di condizionare la politica dei suoi vicini. Per raggiungere tale ambizioso traguardo, l’Iran ha bisogno anche di accrescere il suo potenziale militare, poiché il soft power pur poggiando in misura rilevante su una identità ideologica che nell’Iran potrebbe essere facilmente riscontrata, si sostanzia anche di un hard power, ovvero di un potenziale militare in grado di fornire le necessarie assicurazioni per una politica di sicurezza.

Dunque, l’Iran si è trasformato in uno degli attori nodali della politica internazionale. La sua influenza regionale lo rende la chiave di volta per la riuscita delle operazioni nordamericane nell’area. I tre obiettivi regionali emersi dall’amministrazione di George W. Bush (risolvere il conflitto israelo-palestinese, soggiogare e ristabilizzare l’Iraq e l’Afghanistan) vedono inevitabilmente coinvolta anche Teheran che ha sicuramente ricevuto i maggiori benefici dal doppio intervento statunitense. Rimuovendo Saddam Hussein ed i Taliban, Washington ha eliminato due tra le più serie minacce per Teheran, e ciò che li ha rimpiazzati non può certo definirsi come un pericolo per l’Iran. Tuttavia, l’aumento della presenza militare degli Stati Uniti nell’area rappresenta un impedimento per le ambizioni di iraniane. Per questo, l’Iran ha giocato un ruolo ambiguo partecipando costruttivamente allo sforzo statunitense di creare istituzioni civili stabili in Afghanistan ed Iraq nello stesso momento in cui allacciava contatti con importanti elementi dell’estremismo politico-militare su entrambe i versanti.

Nello specifico, l’inimicizia tra l’Iran e i Taliban è di vecchia data ed è piuttosto un contrasto tra due modi differenti di intendere l’Islam. Da un lato il mantenimento della tradizione, ma con una parziale apertura verso altri modelli culturali; dall’altro la completa intransigenza verso qualsiasi forma di vita non descritta dal Corano. Una concezione quest’ultima suscettibile di alimentare una certa acrimonia da parte dell’Iran nei confronti dei Taliban colpevoli di mortificare l’immagine dell’Islam. L’elemento ideologico seppur importante è solo una parte dell’astio esistente tra l’Iran ed i Taliban. Gli scarsi controlli di questi sul confine tra Iran ed Afghanistan hanno più volte portato i due stati sull’orlo di crisi profonde giunte al loro momento apicale nell’agosto del 1998 quando undici diplomatici iraniani sono stati uccisi in Afghanistan. Tensioni che sono sfociate in un conflitto diretto che ha avuto come conseguenza una stretta alleanza tra l’Iran e le milizie combattenti contrarie al regime afgano. La successione degli eventi ha reso quindi l’Iran un alleato determinante per l’azione statunitense in Afghanistan. Infatti, l’Iran è stato un attore di primo piano nel “processo di Bonn”, cioè ha svolto una parte rilevante nei negoziati per instaurare un regime civile in Afghanistan successivamente all’ottobre 2001.

I rapporti tra l’Iran e l’Afghanistan sono notevolmente migliorati dopo l’invasione statunitense. L’abbattimento del regime talibano ha permesso all’Iran di introdursi nel dialogo volto a stabilizzare il paese accrescendo la sua influenza regionale che ha beneficiato di un ulteriore fattore: l’Iraq. Anche in questo caso come nel precedente la posizione dell’Iran è stata tesa alla collaborazione per eliminare uno dei suoi più acerrimi nemici. Il regime iracheno di Saddam Hussein è stato per molto tempo un fattore di insicurezza per Teheran. La guerra Iran-Iraq, dal 1980 al 1988, ha visto contrapporsi Bagdad e Teheran per il controllo del Golfo Persico e delle sue risorse. In questa situazione, gli Stati Uniti e l’Iran si sono trovati dallo stesso lato della barricata, i primi condannando l’azione di Hussein e finanziando gli iraniani, i secondi combattendo contro le forze irachene che avevano invaso il paese. L’occupazione dell’Iraq nel 2003 ha aperto una nuova fase per l’Iran. Eliminato Saddam sono venuti meno gli ostacoli al controllo del Golfo Persico. In modo del tutto analogo a quanto accaduto per l’Afghanistan, la collaborazione per risolvere la questione irachena non ha dissipato i dubbi e la diffidenza degli Stati Uniti nei riguardi di Teheran. Le intenzioni dell’Iran nel Golfo sono ben note a Washington che non intende in alcun modo lasciargli spazio all’interno dell’area. La prospettiva appare sensata. Aumentare le potenzialità dell’Iran significherebbe modificare l’equilibrio di potenza oggi favorevole agli Stati Uniti grazie al ruolo di Israele e ai condizionamenti che gli Usa possono esercitare su Iraq ed Afghanistan. Inoltre, un Iran più potente esporrebbe ad un rischio troppo alto l’influenza di Israele stesso e ciò accrescerebbe le tensioni nel Vicino Oriente. L’obiettivo primario quindi sarebbe quello di instaurare dei regimi in Afghanistan ed in Iraq tali da controbilanciare la crescita di potere regionale dell’Iran. Paradossalmente, per fare ciò gli Stati Uniti hanno bisogno dell’apporto proprio dell’Iran. Il fallimento o il successo delle missioni in Afghanistan ed in Iraq dipenderà da come gli atlantici si approcceranno a Teheran e da come questa risponderà alle sollecitazioni. In ogni caso, sarà difficile per il Patto Atlantico poter considerare l’Iran un valido interlocutore, dato che sostiene i movimenti armati che combattono Israele. Di fatti, nonostante l’Iran non sia direttamente invischiato nella vicenda israelo-palestinese, la sua azione è stata, e continua ad esserlo, decisiva per la crescita di alcuni movimenti politici che si oppongono all’occupazione sionista, come Hamas. L’odio nei confronti dello stato ebraico nasce sin dal momento della sua creazione. Israele è nato attraverso una pulizia etnica che i “fratelli” palestinesi hanno dovuto subire. Poi, il fatto che Tel Aviv non abbia ancora dichiarato ufficialmente quelli che ritiene essere i suoi confini definitivi inquieta tutti i vicini, memori anche del bellicismo mostrato dagl’Israeliani nel corso della loro breve storia. Questo è di sicuro un fattore destabilizzante per la pacificazione del Vicino Oriente, complicata anche dalla natura religiosa della contrapposizione tra musulmani ed ebrei. Altro aspetto è che la special relationship tra Israele e gli Stati Uniti impedisce all’Iran di vedere gli Stati Uniti stessi come un interlocutore credibile nel perseguire gli interessi dei palestinesi. E’ naturale, dunque, immaginare come per l’Iran Israele rappresenti un problema anche perché è il ponte, insieme alla Turchia, per l’ingresso degli Stati Uniti in Medio Oriente. Il sostegno a Hamas ed Hezbollah che l’Iran mette in pratica ormai da molto tempo non trova alcuna opposizione all’interno delle élite iraniane, tutte d’accordo nel continuare su questa strada per reagire all’usurpazione subita dai palestinesi a opera dei sionisti. Proprio i rapporti tra Hezbollah e Teheran hanno offerto all’Iran la possibilità di stringere legami con i palestinesi per cercare di allargare l’influenza sciita anche aldilà del confine attraverso i finanziamenti a gruppi come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e lo stesso partito armato di Hamas.

La posizione iraniana nei confronti di Israele è stata pesantemente criticata dagli Stati Uniti. Critiche che non hanno avuto l’effetto di ridimensionare l’astio nei confronti di Israele.

Questi argomenti sono stati tutti proposti con forza durante il primo ed il secondo mandato del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Durante questo periodo di tempo la politica estera dell’Iran ha avuto davanti due sfide principali: costruire una nuova politica di sicurezza, minacciata dalla presenza in Iraq ed Afghanistan delle truppe statunitensi, riallacciando il dialogo con il modo arabo prevalentemente con Egitto e Arabia Saudita; inoltre, la presidenza di Ahmadinejad ha perseguito l’obiettivo di una “politica dell’alleanza” per “regionalizzare” il dossier nucleare portandolo al centro del dibattito insieme al conflitto arabo-israeliano. Il punto di vista degli Stati Uniti è che la politica estera di Ahmadinejad nel Vicino Oriente sia offensiva ed espansionistica.

Con l’avvento di Barack Obama è mutato l’approccio all’Iran ferma restando la diffidenza di Washington nei suoi confronti. Incrementare il dialogo è stata una scelta metodologica valida. Ciò però non significa che gli iraniani siano disposti ad accettare la “mano tesa” del presidente Usa. L’azione di contenimento che gli Stati Uniti hanno esercitato nel Golfo Persico per circa cinquanta anni è percepita dagli iraniani come la negazione delle aspirazioni nazionali di supremazia, per questo non cambiano il loro modo di considerare la diplomazia statunitense se non come interessata a marginalizzare il crescente leverage politico-economico dell’Iran. Eppure, il mutato contesto geopolitico ha generato nuove possibilità per l’Iran di esprimere al massimo il proprio potenziale. Ma per ottenere l’ambito risultato la politica dell’Iran dovrà perseguire una maggiore sicurezza dei propri confini e risolvere il “dilemma della sicurezza”, ovvero una maggiore sicurezza dell’Iran corrisponderà ad una maggiore insicurezza dell’Iraq e dell’Afghanistan. Per questo motivo la sfida che aspetta l’Iran non potrà essere affrontata senza fare i conti con gli Stati Uniti, eventualmente anche negoziando gli elementi critici che compongono il puzzle delle relazioni mediorientali. Anche perché l’attuale situazione di insicurezza dei confini iraniani è il frutto della politica statunitense successiva al 2001 diretta al ridimensionamento dell’Iran. Un accordo tra le due potenze potrebbe essere risolutivo per stabilizzare l’Afghanistan e l’Iraq e quindi per rendere maggiormente sicuro l’Iran senza aumentare gli armamenti. Tali valutazioni imporrebbero un cambiamento nel comportamento dell’Iran. Il mutamento richiesto è però del tutto inverosimile. Anche durante il corso del suo secondo mandato Ahmadinejad ha sempre perseguito una politica di tutela degli interessi geostrategici dell’Iran difficilmente coniugabile con una situazione di piena stabilità nell’area. Questo perché l’Iran deve inserirsi nel vuoto di potere lasciato dall’Iraq baathista di Saddam Hussein e può farlo solo se il governo di Bagdad non intralcia i suoi obiettivi. Stabilire una nuova scala di priorità, rimodulare i propri interessi regionali e creare le condizioni per avere confini il più possibili sicuri sono le sfide imminenti della politica estera iraniana. Il fatto che l’Iran abbia avviato colloqui diretti con gli Stati Uniti sulla questione irachena è sintomo che la Repubblica Islamica ha accettato il ruolo strategico degli Stati Uniti in Iraq e vuole in qualche modo sfruttarlo per ottenere vantaggi propri, attivandosi affinché la minaccia statunitense sia il più blanda possibile. Inoltre, per mantenere alto il suo livello di sicurezza, l’Iran ha sviluppato il concetto di “interconnected security” che vuol dire avere come principale arma di difesa l’offesa. O meglio la difesa del proprio stato passa per un diretto coinvolgimento militare.

L’azione regionale dell’Iran ha delle importanti ripercussioni anche sull’azione degli Stati Uniti nel Vicino Oriente. Il supporto alle organizzazioni armate ha notevolmente complicato il compito degli Usa sia in Afghanistan, in Iraq che in Palestina. Per questo motivo, gli approcci attuati da Washington hanno risentito degli influssi della situazione storica. Precedentemente la rivoluzione del 1979, l’Iran era un valido alleato regionale. Al contrario, quando gi ayatollah sono arrivati al potere le relazioni tra i due paesi sono state contraddistinte da diffidenza reciproca che ha portato ad approcci contraddittori tra loro. Dal 1979 in poi, gli Stati Uniti hanno impiegato un arsenale di strumenti per pressare l’Iran come sanzioni economiche, incentivi ed azioni diplomatiche mirate, non arrivando quasi mai ad ottenere l’effetto sperato. Al contrario, nei primi anni Novanta le amministrazioni americane hanno provato sempre a contenere la minaccia iraniana sotto la teoria del contenimento dell’Iran che ha peggiorato ancora di più la percezione degli iraniani nei confronti degli statunitensi. Con l’avvento di Clinton la situazione muta parzialmente. L’impronta liberalizzatrice che aveva pervaso l’Iran in quel periodo convince il presidente americano ad abbandonare la politica del containment, mantenendo la massa di sanzioni che erano state precedentemente imposte.

Sarà solo con l’amministrazione di George W. Bush che gli Stati Uniti svilupperanno una politica coerente nei confronti dell’Iran. Sin dai primi mesi in carica, Bush ha preteso che si mantenesse una linea dura con l’effetto di esacerbare i toni con la Repubblica Islamica. I tragici eventi dell’11 Settembre hanno modificato, ovviamente, l’approccio di Bush all’Iran. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione nel 2002, Bush inserisce l’Iran nell’ “axis of evil” cioè quell’asse di paesi responsabili di un clima di insicurezza internazionale. Nonostante, questo però la stessa amministrazione Bush ha coinvolto l’Iran nel processo di state building per l’Afghanistan a dimostrazione che ha volte gli interessi primari sono più forti delle divergenze. In generale, la guerra al terrorismo degli Stati Uniti ha da un lato complicato i rapporti con l’Iran e dall’altro ha permesso all’Iran di partecipare al processo di stabilizzazione, cioè di assumere un ruolo determinante nella costruzione dell’Afghanistan e dell’Iraq. Per cui, gli Usa dal 1979 in poi hanno perseguito politiche dure nei confronti dell’Iran ma hanno saputo riconoscere, quando era necessario, che il suo ruolo potesse avere degli effetti positivi sulle dinamiche regionali. L’approccio contraddittorio che gli Stati Uniti hanno tenuto nel corso del tempo con l’Iran è il risultato della complessa valutazione del suo status di potenza regionale. Uno status che se anche è avversato dagli Stati Uniti, non può non essere riconosciuto.

Probabilmente, è proprio per questo che il dossier nucleare monopolizza, o quasi, l’agenda internazionale. L’ambizione nucleare iraniana riflette un naturale calcolo strategico.

Il futuro della questione nucleare iraniana è legato a quello di Afghanistan e Iraq. Se gli Stati Uniti accetteranno di sedersi intorno ad un tavolo per discutere tutti i problemi contemporaneamente perseguendo quel “comprehensive approach” tanto caro agli iraniani, potrebbe riuscire a strappare concessioni sul nucleare in cambio della sicurezza sui confini orientali ed occidentali. Al contrario, se si continuerà ad aspettare un’apertura da parte di Ahmadinejad questione per questione, gli Stati Uniti si troveranno a negoziare in una posizione di svantaggio in quanto non potranno utilizzare l’arma della sicurezza nazionale iraniana per distogliere Teheran dal suo progetto.

La posizione dell’Iran appare determinante per le questioni relative all’Afghanistan ed all’Iraq. Solo attraverso un’azione coordinata tra Stati Uniti e Iran sarà possibile portare a termine le due missioni senza subire contraccolpi. E questo depone favorevolmente a per l’Iran, in quanto dimostra che le sue credenziali come potenza egemone del Vicino Oriente sono in costante aumento.

* Carmine Finelli è dottore in Scienze politiche e delle relazioni internazionali (Università degli Studi del Molise)

Le opinioni espresse sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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