Nel quinquennio 2005-2010, lo Stato di Israele e le sue Forze di Difesa si sono profusi in notevoli sforzi per l’implementazione di quelle che si possono definire, secondo le spiegazioni del governo israeliano stesso, “politiche per la sicurezza”. In seguito all’evacuazione israeliana della Striscia di Gaza, nel 2005, l’impegno di Israele per il mantenimento della propria sicurezza è stato intenso e assiduo, ed è stato scandito da quattro momenti fondamentali: il blocco della Striscia di Gaza dal 2006, l’offensiva in Libano dello stesso anno, l’operazione Piombo Fuso del 2008-2009 e i fatti della Freedom Flottilla del 2010. Le quattro iniziative costituiscono la spina dorsale della politica israeliana per la sicurezza negli ultimissimi anni, ma hanno coinvolto un numero impressionante di civili. Soprattutto quest’ultimo elemento ha fatto sorgere dubbi riguardo la legittimità degli interventi israeliani nei confronti del diritto internazionale.
Le norme del diritto internazionale
La Carta delle Nazioni Unite, all’articolo 2.4, stabilisce il principio secondo cui “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza.” La stessa Carta, poi, prevede con l’articolo 51 un solo caso in cui uno Stato può autonomamente fare ricorso alla forza negli affari internazionali, senza agire nell’ambito del Consiglio di Sicurezza: la legittima difesa. Quest’ultima è intesa come un diritto naturale di ogni Stato Membro di provvedere alla propria autotutela nel caso in cui abbia subito un attacco armato “fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie”. Sul concetto di attacco armato, la dottrina prevalente sembra ritenere che esso si debba configurare, per essere definito tale, come atto di una certa ampiezza e intensità che ne riveli l’intenzione offensiva, che violi l’articolo 2.4 della Carta e che sia sferrato da uno Stato contro un altro Stato o parte del suo territorio. Il diritto di legittima difesa si deve però confrontare con quatto limiti, sia di natura pattizia (il testo della Carta) sia di natura consuetudinaria: innanzitutto, su di esso gravano i poteri di controllo attribuiti al Consiglio di Sicurezza sulla reazione dello stato aggredito; in secondo luogo, l’azione di legittima difesa operata da uno Stato offeso deve rispondere ai criteri di necessità (quando non esista in alcun modo un’altra soluzione possibile), proporzionalità (della reazione all’attacco subito) e immediatezza (sempre della reazione all’attacco subito). Israele fu ammesso nell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel maggio del 1949.
Estate 2006: la Guerra del Libano
Il 12 luglio 2006, i militanti di Hezbollah attuarono un’elaborata missione contro Israele: dopo aver dato il via al lancio di razzi Katiusha su alcune città e villaggi nella regione settentrionale del Paese, un commando entrò nel territorio di Israele, attaccando due veicoli militari con a bordo soldati israeliani, di cui tre furono uccisi e due catturati e portati in Libano, per essere barattati con la scarcerazione di alcuni militanti di Hezbollah prigionieri in Israele. Il giorno seguente, le Forze di Difesa israeliane iniziarono l’attacco, bombardando l’aeroporto internazionale di Beirut, imponendo un blocco dello spazio aereo e navale del Libano e distruggendo la strada che collega Beirut a Damasco: l’attacco fu rivolto inizialmente ad infrastrutture civili, con il fine di impedire ad Hezbollah il rifornimento di armi. Seguirono 34 giorni di combattimenti, durante i quali Hezbollah sparò una numero imprecisato di razzi, secondo le stime più diffuse attorno ai 4000, in territorio israeliano, colpendo città, villaggi, kibbutzim e moshavim; ingaggiò battaglia con le Forze di Difesa israeliane; causò la morte di 116 soldati e 43 civili israeliani. Israele, dal canto suo, effettuò più di 12.000 missioni aeree di combattimento, sparò 2.500 missili con le proprie forze navali; distrusse larga parte delle infrastrutture civili libanesi, tra cui l’aeroporto internazionale di Beirut, impianti di depurazione delle acque, centrali elettriche, stazioni di benzina, scuole e due ospedali; causò la morte di più di 1100 civili (secondo le stime di Human Rights Watch), 28 soldati libanesi e un numero imprecisato tra i 250 e i 500 combattenti di Hezbollah.
L’attacco di Israele si rivolge al Libano, da uno Stato ad un altro Stato. Alcune critiche sono state sollevate a Israele poiché il primo attacco non sarebbe avvenuto da parte del governo libanese, bensì dalla milizia armata di Hezbollah. Tuttavia, è pur vero che il movimento sciita fa parte del governo libanese. Piuttosto, grande importanza assume il fatto che i bombardamenti e i blocchi aerei e navali operati da Israele sembrano non rispettare il principio di proporzionalità che la legittima difesa impone. L’uccisione e la cattura di due soldati israeliani, malgrado sia avvenuta tramite sconfinamento di territorio, se da un lato si può configurare come attacco armato, tuttavia non sembra poter giustificare l’entità dell’attacco sferrato da Israele in tutto il territorio libanese. Non mancano esperti di diritto internazionale, come Natalino Ronzitti, che sottolineano come sia da ritenersi attacco armato non soltanto l’azione di Hezbollah contro i due mezzi militari israeliani, ma anche il pericolo che il Partito di Dio costituisce per Israele in generale, tramite i lanci di missili da Nord. Tuttavia, i rapporti di altri osservatori, come Human Rights Watch, mettono in luce come l’entità del contrattacco israeliano sia risultata molto più ampia dei danni subiti, sia in quanto a numero di vittime libanesi sia in quanto a danni materiali provocati a infrastrutture civili. Inoltre, nel rapporto di HRW è messo in luce come le Forze di Difesa israeliane avrebbero incluso nei loro attacchi a “obiettivi militari” anche un gran numero di civili, identificando come “militari” anche funzionari o membri di Hezbollah, che in nessun modo svolgevano funzioni militari. Inoltre, grava su Israele l’accusa di aver fatto uso di bombe a grappolo, di produzione statunitense, su aree civili libanesi. Nel gennaio del 2007, lo stesso portavoce del Dipartimento di Stato statunitense Sean McCormack annunciò che esistevano forti sospetti e prove ancora da verificare che Israele avesse effettivamente utilizzato tale tipologia di ordigno su obiettivi civili.
Se quindi l’attacco israeliano al Libano del 2006 può trovare delle attenuanti in base al principio di legittima difesa, le modalità con cui è avvenuto, l’entità del numero delle vittime e dei danni, la tipologia di obiettivi colpiti e l’utilizzo di particolari armi segnalano come la reazione israeliana sia risultata sproporzionata rispetto all’attacco subito e, per questo motivo, sembri uscire dall’area di liceità nei confronti del diritto internazionale.
Giugno 2007: il blocco della Striscia di Gaza
Nel giugno del 2007, dopo la conquista da parte di Hamas del controllo sulla Striscia di Gaza, i confini dell’intera area sono stati bloccati formalmente da Israele, che ha vietato tutte le esportazioni dalla Striscia, consentendo soltanto l’ingresso di beni sufficienti a evitare una crisi umanitaria o sanitaria. Il blocco di Gaza, inoltre, riguarda anche l’accesso al mare: la marina israeliana ha imposto un blocco navale sul Mediterraneo al largo delle coste di Gaza, obbligando tutte le navi in arrivo e in partenza da Gaza a subire dei controlli presso il porto israeliano di Ashdod.
Dal settembre del 2007, a seguito di un intensificarsi di lanci di razzi da Gaza, Israele ha dichiarato la Striscia “territorio ostile”. Lo scopo del blocco, secondo le autorità israeliane, è quello di fare pressione su Hamas affinché interrompa il lancio di razzi su Israele. Inoltre, Israele si è dichiarato “non responsabile” dal punto di vista umanitario nei riguardi di un territorio ostile, giustificando in questo modo le condizioni di vita a cui sono sottoposti gli abitanti di Gaza. Il blocco di Gaza, infatti, crea una situazione estremamente critica dal punto di vista umanitario: secondo la FAO, il 61% degli abitanti di Gaza non ha la sicurezza di procacciarsi il cibo necessario alla sopravvivenza, mentre l’UNRWA denuncia come l’80% degli abitanti di Gaza necessiti degli aiuti umanitari per soddisfare il proprio fabbisogno alimentare.
L’opinione di diverse autorevoli organizzazioni, tuttavia, non condivide il punto di vista israeliano. Innanzitutto, diversi osservatori chiamano in causa la IV Convenzione di Ginevra, che imputa alla potenza occupante la responsabilità di garantire la protezione dei civili che abitano nel territorio occupato. Il Consiglio di Sicurezza ha dichiarato nel 1979 che la IV Convenzione si applica anche riguardo ai territori occupati da Israele nel 1967, Gaza inclusa. Israele, da parte sua, sostiene di aver terminato l’occupazione di Gaza nel 2005, quando si ritirò dalla Striscia. In realtà, da un lato tale affermazione risulta in contraddizione con il blocco terrestre e navale imposto da Israele sull’area; dall’altro il disimpegno unilaterale stabilito da Ariel Sharon nel 2005 prevedeva l’evacuazione della Striscia, ma non la consegna dei poteri all’Autorità Nazionale Palestinese.
Inoltre, i Protocolli Addizionali alla IV Convenzione di Ginevra, aggiunti nel 1977, stabiliscono, all’articolo 48, come le parti in conflitto siano tenute a distinguere tra obiettivi civili e militari, e, di conseguenza, a rivolgere i loro attacchi ai soli obiettivi militari. La situazione a Gaza, invece, denota come Israele non stia distinguendo tra combattenti di Hamas e popolazione civile, e come il blocco abbia assunto i caratteri di una vera e propria “punizione collettiva”, secondo le parole del Sottosegretario Generale per gli Affari Umanitari delle Nazioni Unite John Holmes, nei confronti del milione e mezzo di abitanti della Striscia.
Dicembre 2008 – Gennaio 2009: l’operazione “Piombo Fuso”
Il controllo della Striscia di Gaza da parte di Hamas si è rivelato una spina nel fianco per Israele fin dall’inizio. Il blocco imposto su Gaza non ha potuto evitare il lancio di razzi dalla Striscia alle città israeliane confinanti: al contrario, il lancio di tali razzi è motivato proprio dall’imposizione del blocco e dalle incursioni dell’aviazione israeliana sulla Striscia. I rudimentali razzi usati da Hamas sono i noti Qassam, caratterizzati da facilità e rapidità di produzione, creati con materiali di uso comune, come tubi d’acciaio, una miscela solida di zucchero e un fertilizzante ampiamente disponibile, il nitrato di potassio. Il lancio di questi razzi ha causato negli ultimi otto anni 15 morti israeliani, ma soprattutto impone agli abitanti delle città vicine alla Striscia una vita difficile, scandita da paure e fughe nei rifugi sotterranei. L’operazione “Piombo Fuso”, effettuata dalle Forze di Difesa israeliane tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009, aveva lo scopo, secondo le autorità israeliane, di colpire Hamas affinché interrompesse il lancio di razzi. Gli obiettivi dei bombardamenti israeliani sarebbero stati, secondo i piani, i supporti logistici di Hamas, i suoi leader e i tunnel sotterranei che collegano Gaza all’Egitto.
L’operazione “Piombo Fuso” prevedeva l’uso di intensi bombardamenti aerei (sembra che solo nel primo giorno l’aeronautica di Israele abbia effettuato tra i 200 e 300 bombardamenti) e azioni di terra, durante le quali le forze israeliane circondarono e assediarono Gaza, Khan Yunus e le altre città della Striscia. Il risultato dell’Operazione è sconcertante: secondo il rapporto stilato dalla missione dell’ONU presieduta da Richard J. Goldstone e incaricata di indagare sui fatti di quei giorni, il numero di morti da parte palestinese ammonta a circa 1400. Nei circa venti giorni di bombardamenti, sarebbero stati colpiti, oltre che punti di lancio di razzi e cunicoli sotterranei, anche palazzi governativi, università, un deposito di derrate alimentari delle Nazioni Unite e una serie di obiettivi civili, come case e moschee. Entrambe le parti sono accusate di ripetute violazioni dei diritti umani: in particolare, Hamas avrebbe giustiziato alcune decine di rappresentanti di Fatah accusandoli di spionaggio; mentre Israele si sarebbe servito a sua volta di scudi umani, sequestrando alcune famiglie di palestinesi nelle loro case, per usarle come punti di osservazione. Secondo le accuse di alcuni ex-soldati israeliani, e secondo i risultati dell’operazione in termini di persone rimaste uccise, le forze israeliane avrebbero compiuto deliberati attacchi contro la popolazione civile e violato l’obbligo internazionale, in base alla IV Convenzione di Ginevra, di prendere adeguate precauzioni atte a proteggere la popolazione ed i beni civili di Gaza.
Inoltre, Israele è accusato di aver utilizzato armi improprie per colpire obiettivi civili, come le bombe al fosforo bianco, un materiale altamente incendiario. Sebbene non sia esplicitamente vietato da alcuna convenzione, il Protocollo III della Convenzione delle Nazioni Unite su certe armi convenzionali, del 1980, ne proibisce l’uso contro obiettivi civili, sia persone sia oggetti. Israele afferma di averlo utilizzato durante l’operazione “Piombo Fuso”, ma con il solo fine di illuminare a giorno le aree di guerra. Tuttavia, varie accuse sono state rivolte alle forze israeliane, tra cui quelle della Croce Rossa Internazionale, di aver utilizzato bombe al fosforo bianco per bombardare aree densamente abitate da civili: in questo modo, Israele non avrebbe preso le dovute precauzioni affinché non fossero coinvolti nel bombardamento anche obiettivi civili.
Infine, il fatto che probabilmente rileva maggiormente in questa vicenda è l’incoerenza dell’attacco israeliano con i principi del diritto internazionale. Innanzitutto, l’attacco armato subito da Israele, ossia il lancio verso il suo territorio di razzi Qassam, può difficilmente essere considerato un casus belli: infatti, se da un lato Hamas e i palestinesi accusano Israele di aver rotto per primo la tregua precedente a “Piombo Fuso”, con bombardamenti sui Territori e l’uccisione di alcuni militanti di Hamas; dall’altro lato, la Striscia di Gaza non si configura come “Stato sovrano” e Hamas è un semplice partito al suo interno, per cui Israele non può invocare, nemmeno in questo caso, il principio di legittima difesa. In secondo luogo, anche alla luce delle investigazioni ufficiali successive, l’operazione “Piombo Fuso” non sembra aver rispettato i limiti di necessità e, soprattutto, proporzionalità che la legittima difesa prevede.
Maggio 2010: la Freedom Flottilla
Il 31 maggio 2010, una flotta di navi battenti bandiere statunitense, turca, greca e svedese e guidate da attivisti pro-palestinesi, la Freedom Flotilla, ha tentato la violazione del blocco di Gaza, per portare aiuti umanitari e richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla situazione della Striscia.
Le forze navali israeliane hanno intercettato la flottiglia nelle acque internazionali del Mediterraneo, al largo di Gaza, per accompagnare le navi al porto di Ashdod, come previsto dal blocco navale israeliano. Cinque delle sei navi sono state abbordate senza l’uso della forza. Tuttavia, a bordo dell’imbarcazione più grande, la Mavi Marmara, si sono verificati scontri tra alcuni attivisti e le forze israeliane. Il risultato degli scontri è di nove attivisti uccisi dal commando israeliano, altri feriti o arrestati, e il ferimento di sette soldati israeliani.
I fatti della Freedom Flottilla hanno sollevato la discussione riguardo alla liceità del blocco navale su Gaza rispetto al diritto internazionale. Innanzitutto, la presenza del blocco navale stesso, che Israele giustifica con lo stato di guerra in cui si trova nei confronti di Hamas: questo concetto, come già ripetuto precedentemente, non ha validità nel campo del diritto internazionale, poiché Hamas non governa uno Stato autonomo e sovrano. Per questo motivo, il blocco navale, che è effettivamente una misura di guerra riconosciuta dal diritto internazionale, ma solo quando venga assunta da uno Stato contro un altro Stato, non sembra poter essere giustificato dalla presenza di uno stato di guerra tra lo Stato di Israele e Hamas.
In secondo luogo, il blocco imposto da Israele risponde, come hanno precisato le autorità israeliane, ai criteri stabiliti nel “Manuale di Sanremo” sul diritto internazionale applicabile ai conflitti armati sul mare, del 1994. Tuttavia, l’articolo 102 dello stesso Manuale vieta il blocco, qualora causi alla popolazione civile sofferenze sproporzionate rispetto al vantaggio militare derivante dal blocco stesso. Inoltre, l’articolo 70 del Protocollo Addizionale alla Convenzione di Ginevra, del 1977, stabilisce che, in caso di scarsità di beni necessari alla popolazione, i belligeranti devono intraprendere azioni umanitarie che nessuno dei due contendenti può considerare come ostili, anche qualora siano a vantaggio della parte civile nemica. Considerando che la situazione di Gaza sembra presentare chiari segnali di scarsità di beni primari, risulta che se anche fosse riconosciuto a Israele il diritto di istituire un blocco per legittima difesa, l’attuale blocco risulterebbe ugualmente non coerente con i parametri del diritto internazionale.
Infine, il blocco navale israeliano si estende per 20 miglia dalle coste di Gaza, ma l’abbordaggio e gli scontri con le navi della Freedom Flottilla sarebbero avvenuti a 70 miglia dalla costa, ben 50 miglia prima del limite di mare coperto da blocco. Le autorità israeliane si sono giustificate spiegando che il Manuale della Marina da Guerra statunitense dispone all’articolo 7.7.4 il diritto per il Paese che attua il blocco di intervenire anche prima che le navi lo abbiano violato, soprattutto quando queste ultime abbiano già manifestato l’intenzione di violare il blocco al momento della partenza dal porto. Tuttavia, nemmeno questa spiegazione può essere accettata, poiché il Manuale della Marina statunitense non si configura come fonte di diritto internazionale. Inoltre, è importante ricordare come non sia del tutto corretto sostenere che gli attacchi siano avvenuti in acque internazionali: infatti, per il diritto internazionale, le navi sono considerate territorio dello Stato di cui la nave batte bandiera e che, in un tale contesto, i soldati israeliani hanno aperto il fuoco dopo essere stati calati sul ponte della Mavi Marmara, la quale, battendo bandiera turca, risultava essere in realtà territorio turco.
Alcune conclusioni
È evidente che le “attività per la sicurezza” dello Stato di Israele nel quinquennio 2005-2010 appaiano quantomeno “controverse” sotto il punto di vista della loro liceità nei confronti del diritto internazionale. Sicuramente, gran parte dei dubbi riguardo la conformità o la non conformità di tali azioni con il diritto internazionale nascono dalle diverse interpretazioni che le parti danno allo statuto di Gaza e dei Territori palestinesi. Infatti, se risulta alquanto chiaro come la Striscia di Gaza non costituisca uno Stato autonomo, molto più complicato è definire con precisione quale sia l’effettivo statuto della Striscia stessa. Questa ambiguità ha giocato un ruolo determinante negli avvenimenti degli ultimi cinque anni, permettendo margini di manovra molto ampi alle Forze di Difesa israeliane. È indubbio che tale indefinitezza riguardo allo status giuridico di Gaza sia utile a giustificare sia le sproporzionate operazioni di Israele, sia i lanci di razzi di Hamas. Chi ci rimette maggiormente, in questa gara al massacro, sembra essere la popolazione civile palestinese. In questa situazione, sembra necessaria innanzitutto una definizione chiara e univoca di quale sia lo status effettivo di Gaza: quando la Striscia verrà riconosciuta come Stato autonomo, Israele potrà reclamare il proprio diritto alla legittima difesa, pur restando nell’ambito della proporzionalità prevista dal diritto internazionale. Se invece, come pare più verosimile, Israele non acconsentirà a riconoscere l’indipendenza di Gaza, lo Stato ebraico dovrà iniziare a garantire la sicurezza e le condizioni umanitarie necessarie alla popolazione civile che abita la Striscia, nel pieno rispetto, non soltanto del diritto internazionale, ma anche dei diritti umani fondamentali.
* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)